Paolo e la comunità ecclesiale di Roma


Preghiamo perché si parli non di tante cose, ma della fede della Chiesa di Roma

“Il testo (Rm 12,1-2) è l’inizio della quarta ed ultima parte della Lettera ai Romani e comincia con le parole “Vi esorto” (v.1). Normalmente si dice che si tratti della parte morale che segue alla parte dogmatica, ma nel pensiero di san Paolo, e anche nel suo linguaggio, non si possono dividere così le cose: questa parola “esorto”, in greco parakalo, porta in sé la parola paraklesis – parakletos, ha una profondità che va molto oltre la moralità; è una parola che certamente implica ammonizione, ma anche consolazione, cura per l’altro, tenerezza paterna, anzi materna; questa parola “misericordia” –
in greco oiktirmon e in ebraico rachamim, grembo materno – esprime la misericordia, la bontà, la tenerezza di una madre. E se san Paolo esorta, tutto questo è implicito; parla col cuore, parla con la tenerezza dell’amore di un padre e parla non solo lui. Paolo dice “per la misericordia di Dio” (v. 1); si fa strumento del parlare di Dio, si fa strumento del parlare di Cristo; Cristo parla a noi con questa tenerezza, con questo amore paterno, con questa cura per noi. E così non fa appello solo alla nostra moralità e alla nostra volontà, ma anche alla Grazia che è in noi, che lasciamo operare la Grazia. E’ quasi un atto nel quale la Grazia data nel Battesimo diventa operante in noi, dovrebbe essere operante in noi; così la Grazia, il dono di Dio, e il nostro operare vanno insieme.
A che cosa esorta, in questo senso, Paolo? “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (v.1). “Offrite i vostri corpi”: parla della liturgia, parla di Dio, della priorità di Dio, ma non parla della liturgia come cerimonia, parla della liturgia come vita. Noi stessi, il nostro corpo; noi nel nostro corpo e come corpo dobbiamo essere liturgia. Questa è la novità del Nuovo testamento, e lo vedremo ancora dopo: Cristo offre se stesso e sostituisce così tutti gli altri sacrifici. E vuole “tirare” noi stessi nella comunione del suo Corpo: il nostro corpo insieme con il suo diventa gloria di Dio, diventa liturgia. Così questa parola “offrire” – in greco parastesal – non è solo un ‘allegoria; allegoricamente anche la nostra vita sarebbe una liturgia, ma, al contrario, la vera liturgia è quella del nostro corpo, del nostro essere nel Corpo di Cristo, come Cristo stesso ha fatto la liturgia del mondo, la liturgia cosmica, che tende ad attirare a sé tutti.
“Nel vostro corpo, offrite il corpo”: questa parola indica l’uomo nella totalità, indivisibile – alla fine – tra anima e corpo, spirito e corpo; nel corpo siamo noi stessi e il corpo animato dall’anima, il corpo stesso, deve essere la realizzazione della nostra adorazione. E pensiamo – forse direi che ognuno di noi rifletta su questa parola – che il nostro vivere quotidiano nel nostro corpo, nelle piccole cose, dovrebbe essere ispirato, profuso, immerso nella realtà divina, dovrebbe divenire azione insieme con Dio. Questo non vuol dire che dobbiamo sempre pensare a Dio, ma che dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la nostra vita – e non solo alcuni pensieri – siano liturgia, siano adorazione. Paolo poi dice: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente” (v. 1): la parola greca è logike latreia e appare poi nel Canone Romano, nella Prima Preghiera Eucaristica, “rationabile obsequium”. E’ una definizione nuova del culto, ma preparata sia nell’Antico Testamento, sia nella filosofia  greca: sono due fiumi – per così dire – che guidano verso questo punto e si uniscono nella nuova liturgia dei cristiani e di Cristo. Antico Testamento: dall’inizio hanno capito che Dio non ha bisogno di tori, di arieti, di queste cose. Nel Salmo 5° (49), Dio dice: Pensate che io mangi dei tori, che io beva del sangue di arieti? Io non ho bisogno di queste cose, non mi piacciono, io non bevo e non mangio queste cose. Non sono sacrificio per me. Sacrificio è la lode di Dio, se voi venite a me è lode di Dio” (vv. 13 – 15.23). Così la strada dell’Antico Testamento Va verso un punto in cui queste cose esteriori, simboli, sostituzioni, scompaiono e l’uomo stesso diventa lode di Dio”(Benedetto XVI, Lectio divina al Pontificio Seminario Romano Maggiore, 15 febbraio 2012).

La liturgia dei cristiani, di Cristo risorto presente, sempre contemporaneo, parla attraverso la Scrittura e  si dona in persona nei Sacramenti, l’Eucaristia in particolare, facendoci rivivere oggi tutto il vissuto prima di morire e di risorgere, soprattutto la passione, morte e risurrezione, memorizzati nei Vangeli, per conformarci a Lui. Ma nella modernità Kant, con la sua religione morale, ha escluso il darsi di Cristo in persona nei Sacramenti, la sua contemporaneità ecclesiale dall’orizzonte  dell’uomo. La religione è diventata una faccenda personale, spiritualizzata, funzionale ad una morale, ad una etica che struttura la società. In Hume si giunge all’esclusione totale di Dio dalla vita pubblica e dall’esistenza dell’uomo. L’empirismo prende il posto della metafisica dell’essere, del senso religioso e Dio non è più il Creatore, il contemporaneo sacramentale, ecclesiale che salva con il volto umano di Gesù, ma è un ente socialmente inutile e pericoloso. Hegel e Comte realizzarono i passi successivi nel sottolineare l’importanza della comunità e dello studio della società come orientanti la vita dell’uomo e, di fatto, sostitutivi di Dio.
Il Culto, la Liturgia, nel dramma della   frattura tra Vangelo e cultura, tra fede e vita, non è più ritenuta  la realtà di un aprirsi metafisico, creaturale, religioso, sacramentale alla continua presenza di Dio che possiede un volto umano per liberarci dalla gravità delle miserie e dei peccati, ma un abbassamento di Dio alle dimensioni umane, un concetto di Assoluto creato dall’uomo, cui appartiene il positivo e il negativo. Tale culto, tale liturgia è fatta diventare una festa che la comunità si fa da sé e su di sé. Nella secolarizzazione muta la concezione, l’orizzonte religioso, cristiano, sacramentale: dall’adorazione di Dio si passa ad un cerchio che gira intorno a se stesso. E si rischia di avere cristiani alla routine, frustrati, con il senso del vuoto, stanchi e annoiati di un moralismo impossibile.
Urge veramente recuperare il senso religioso originario, naturale cui giunge culturalmente la filosofia greca e la dimensione sacramentale, cristiana cui porta il fiume dell’Antico Testamento per recuperare un pensiero libero dalla schiavitù relativista moderna, che eguaglia l’errore alla verità, dissolvendo lo stesso concetto di verità o realtà in tutti gli ambiti visibili e invisibili. E’ il realismo cattolico della Tradizione liturgica, dell’umanesimo cristiano che porta ad agire sempre con Dio, assimilati sempre più a Cristo.

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