Istituzioni ecclesiali
Le decisioni istituzionali del magistero possono diventare feconde solo a condizione che siano legate a una lotta seria e convinta per una nuova evidenza delle opzioni fondamentali della fede
Il 27 novembre 1999, in una conferenza tenuta a Parigi dal titolo “Verità del cristianesimo?”, così il card. Ratzinger concluse: “Guardando al passato, possiamo dire che la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale sta nella sintesi da esso operata tra ragione e fede, fede e vita, brevemente indicata con l’espressione ‘religione vera’. Tutte le crisi interne al cristianesimo osservabili ai nostri giorni sono riconducibili solo secondariamente a problemi di tipo istituzionale. I problemi di tipo sia istituzionale sia personale nella Chiesa derivano, in ultima istanza, da questa questione e dal suo enorme peso”.
Cioè, appunto, dalla “pretesa di verità” del cristianesimo, in un’epoca in cui per tanti uomini non ci sono più certezze, ma solo opinioni.
A questa tesi il cardinale Eyt reagì pochi giorni dopo, sul quotidiano “La Croix”
del 9 dicembre 1999. Obiettò che i “problemi istituzionali” nella Chiesa non sono affatto “secondari” come Ratzinger aveva sostenuto. Vescovi e cardinali, a giudizio di Eyt, devono ogni giorno “decidere e prendere posizione con urgenza”. Non possono tergiversare, perché quotidianamente “sono con le spalle al muro”. Sotto le provocazioni della sensibilità di oggi “dobbiamo mettere un po’ più alla prova alcune nostre concezioni pratiche”.
Quali pratiche? Per esemplificare, il cardinale Eyt, anch’egli membro della Congregazione per la dottrina della fede, citò l’intervento del cardinale Carlo Maria Martini al Sinodo dei vescovi di quello stesso anno, che aveva indicato come bisognose di cambiamenti le seguenti questioni, da mettere al centro di un auspicato nuovo Concilio: “il ruolo della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina matrimoniale, il rapporto con le Chiese sorelle dell’Ortodossia, il bisogno di rianimare la speranza ecumenica, il rapporto tra democrazia e valori, tra le leggi civili e la morale”.
Ratzinger replicò, anche lui su “La Croix”, il 30 dicembre. E i primi due punti della sua replica furono i seguenti:
“1. Il cardinale Eyt dice che, nell’analisi delle decisioni della Chiesa antica, avrei dovuto non solo prendere in considerazione il rapporto tra fede e razionalità, ma anche mettere in evidenza la relazione tra fede e diritto romano.
Su questo punto non posso concordare. La relazione tra fede e ragione, infatti, è un’opzione originaria della fede cristiana già chiaramente formulata nella letteratura profetica e sapienziale dell’Antico Testamento e in seguito ripresa con decisione nel Nuovo Testamento. La pretesa, di fronte alla religione mitica e politica, di essere una fede in rapporto con la verità e perciò responsabile rispetto alla ragione, appartiene all’auto definizione essenziale dell’eredità biblica, eredità che ha preceduto la missione e la teologia cristiane e che, ancor più, le ha rese possibili.
La relazione con il diritto romano, invece, non è stata sviluppata che progressivamente a partire dal IV secolo e, rispetto alla decadenza delle strutture dell’impero, non ha mai potuto conseguire in Occidente lo stesso significato che aveva nella Chiesa dell’impero bizantino. Si tratta di un’opzione secondaria, intervenuta in un’epoca determinata e che potrebbe anche nuovamente scomparire. E’ certamente vero che tra diritto e Chiesa esiste una relazione reciproca di fondo (“il diritto è condizione dell’amore” dalla Lettera ai Seminaristi), ma si tratta di una questione indipendente dall’altra.
“2. Il mio confratello del collegio cardinalizio ritiene che io sottovaluti il senso delle istituzioni. E’ incontestabile il fatto che la fede cristiana, sin dalle origini, non abbia voluto essere soltanto un’idea, che sia entrata nel mondo dotata di elementi istituzionali (funzione apostolica, successione apostolica) e che, dunque, la forma istituzionale della Chiesa appartenga per essenza alla fede (una società senza diritto sarebbe una società priva di diritti da idem)). Ma le istituzioni non possono vivere se non sono sostenute da convinzioni fondamentali comuni e se non esiste un’evidenza di valori che ne fondi l’identità.
La fragilità di questa evidenza è – lo ripeto – la ragione specifica della crisi attuale della Chiesa. Il cardinale Eyt mi ricorda a ragione le decisioni istituzionali che devo prendere quotidianamente. Ma è proprio qui che la connessione diventa per me evidente. Laddove le decisioni del magistero su valori determinanti per l’identità dell’istituzione ecclesiale non possono più contare su una convinzione comune, esse sono necessariamente percepite come repressive e restano, in fin dei conti inefficaci.
Chi difende la dottrina trinitaria, la cristologia, la struttura sacramentale della Chiesa, la sua origine nel Cristo, la funzione di Pietro o l’insegnamento morale fondamentale della Chiesa ecc., e deve combatterne la negazione in quanto incompatibile con l’istituzione ecclesiale, colpisce nel vuoto se si diffonde l’opinione che tutto questo insieme di verità è senza importanza. In questo modo un’istituzione diviene una carcassa vuota e cade in rovina, anche se esteriormente resta potente o dà l’apparenza di avere solide fondamenta.
Per questo le decisioni istituzionali del magistero possono diventare feconde solo a condizione che siano legate a una lotta seria e convinta per una nuova evidenza delle opzioni fondamentali della fede”.
Il 27 novembre 1999, in una conferenza tenuta a Parigi dal titolo “Verità del cristianesimo?”, così il card. Ratzinger concluse: “Guardando al passato, possiamo dire che la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale sta nella sintesi da esso operata tra ragione e fede, fede e vita, brevemente indicata con l’espressione ‘religione vera’. Tutte le crisi interne al cristianesimo osservabili ai nostri giorni sono riconducibili solo secondariamente a problemi di tipo istituzionale. I problemi di tipo sia istituzionale sia personale nella Chiesa derivano, in ultima istanza, da questa questione e dal suo enorme peso”.
Cioè, appunto, dalla “pretesa di verità” del cristianesimo, in un’epoca in cui per tanti uomini non ci sono più certezze, ma solo opinioni.
A questa tesi il cardinale Eyt reagì pochi giorni dopo, sul quotidiano “La Croix”
del 9 dicembre 1999. Obiettò che i “problemi istituzionali” nella Chiesa non sono affatto “secondari” come Ratzinger aveva sostenuto. Vescovi e cardinali, a giudizio di Eyt, devono ogni giorno “decidere e prendere posizione con urgenza”. Non possono tergiversare, perché quotidianamente “sono con le spalle al muro”. Sotto le provocazioni della sensibilità di oggi “dobbiamo mettere un po’ più alla prova alcune nostre concezioni pratiche”.
Quali pratiche? Per esemplificare, il cardinale Eyt, anch’egli membro della Congregazione per la dottrina della fede, citò l’intervento del cardinale Carlo Maria Martini al Sinodo dei vescovi di quello stesso anno, che aveva indicato come bisognose di cambiamenti le seguenti questioni, da mettere al centro di un auspicato nuovo Concilio: “il ruolo della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina matrimoniale, il rapporto con le Chiese sorelle dell’Ortodossia, il bisogno di rianimare la speranza ecumenica, il rapporto tra democrazia e valori, tra le leggi civili e la morale”.
Ratzinger replicò, anche lui su “La Croix”, il 30 dicembre. E i primi due punti della sua replica furono i seguenti:
“1. Il cardinale Eyt dice che, nell’analisi delle decisioni della Chiesa antica, avrei dovuto non solo prendere in considerazione il rapporto tra fede e razionalità, ma anche mettere in evidenza la relazione tra fede e diritto romano.
Su questo punto non posso concordare. La relazione tra fede e ragione, infatti, è un’opzione originaria della fede cristiana già chiaramente formulata nella letteratura profetica e sapienziale dell’Antico Testamento e in seguito ripresa con decisione nel Nuovo Testamento. La pretesa, di fronte alla religione mitica e politica, di essere una fede in rapporto con la verità e perciò responsabile rispetto alla ragione, appartiene all’auto definizione essenziale dell’eredità biblica, eredità che ha preceduto la missione e la teologia cristiane e che, ancor più, le ha rese possibili.
La relazione con il diritto romano, invece, non è stata sviluppata che progressivamente a partire dal IV secolo e, rispetto alla decadenza delle strutture dell’impero, non ha mai potuto conseguire in Occidente lo stesso significato che aveva nella Chiesa dell’impero bizantino. Si tratta di un’opzione secondaria, intervenuta in un’epoca determinata e che potrebbe anche nuovamente scomparire. E’ certamente vero che tra diritto e Chiesa esiste una relazione reciproca di fondo (“il diritto è condizione dell’amore” dalla Lettera ai Seminaristi), ma si tratta di una questione indipendente dall’altra.
“2. Il mio confratello del collegio cardinalizio ritiene che io sottovaluti il senso delle istituzioni. E’ incontestabile il fatto che la fede cristiana, sin dalle origini, non abbia voluto essere soltanto un’idea, che sia entrata nel mondo dotata di elementi istituzionali (funzione apostolica, successione apostolica) e che, dunque, la forma istituzionale della Chiesa appartenga per essenza alla fede (una società senza diritto sarebbe una società priva di diritti da idem)). Ma le istituzioni non possono vivere se non sono sostenute da convinzioni fondamentali comuni e se non esiste un’evidenza di valori che ne fondi l’identità.
La fragilità di questa evidenza è – lo ripeto – la ragione specifica della crisi attuale della Chiesa. Il cardinale Eyt mi ricorda a ragione le decisioni istituzionali che devo prendere quotidianamente. Ma è proprio qui che la connessione diventa per me evidente. Laddove le decisioni del magistero su valori determinanti per l’identità dell’istituzione ecclesiale non possono più contare su una convinzione comune, esse sono necessariamente percepite come repressive e restano, in fin dei conti inefficaci.
Chi difende la dottrina trinitaria, la cristologia, la struttura sacramentale della Chiesa, la sua origine nel Cristo, la funzione di Pietro o l’insegnamento morale fondamentale della Chiesa ecc., e deve combatterne la negazione in quanto incompatibile con l’istituzione ecclesiale, colpisce nel vuoto se si diffonde l’opinione che tutto questo insieme di verità è senza importanza. In questo modo un’istituzione diviene una carcassa vuota e cade in rovina, anche se esteriormente resta potente o dà l’apparenza di avere solide fondamenta.
Per questo le decisioni istituzionali del magistero possono diventare feconde solo a condizione che siano legate a una lotta seria e convinta per una nuova evidenza delle opzioni fondamentali della fede”.
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