Vera riforma della Chiesa
Non può esserci vera riforma della Chiesa se prima non c’è la nostra personale riforma e la conversione del nostro cuore
“San Roberto Bellarmino svolse un ruolo importante nella Chiesa degli ultimi decenni del secolo XVI e dei primi del secolo successivo. Le sue Controversiae costituiscono un punto di riferimento, ancora valido, per l’ecclesiologia cattolica sulle questioni circa la Rivelazione, la natura della Chiesa, i Sacramenti e l’antropologia cattolica. In esse appare accentuato l’aspetto istituzionale della Chiesa, a motivo degli errori che allora circolavano su tali questioni. Tuttavia Bellarmino chiarì anche gli aspetti invisibili della Chiesa come Corpo Mistico e li illustrò con l’analogia del corpo e dell’anima, al fine di descrivere il rapporto tra le ricchezze interiori della Chiesa e gli aspetti esteriori che la rendono percepibile. In questa monumentale opera, che tenta di sistematizzare le varie controversie teologiche dell’ epoca, egli evita ogni taglio polemico e aggressivo nei confronti delel iee della Riforma, ma utilizzando gli argomenti della ragione e della Tradizione della Chiesa, illustra in modo chiaro ed efficace la dottrina cattolica.
Tuttavia, la sua eredità sta nel modo in cui concepì il suo lavoro. I gravosi uffici di governo non gli impedirono, infatti, di tendere quotidianamente verso la santità con la fedeltà alle esigenze del proprio stato di religioso, sacerdote e vescovo. Da questa fedeltà discende il suo impegno di predicazione. Essendo, come sacerdote e vescovo, innanzitutto un pastore d’anime, sentì il dovere di predicare assiduamente. Sono centinaia i sermones – le omelie – tenuti nella Fiandre, a Roma, a Napoli e a Capua in occasione delle celebrazioni liturgiche. Non meno abbondanti sono le sue expositiones e le explanationes ai parroci, alle religiose, agli studenti del Collegio Romano, che hanno spesso per oggetto la sacra Scrittura, specialmente le Lettere di san Paolo. La sua predicazione e le sue catechesi presentano quel medesimo carattere di essenzialità che aveva appreso dall’educazione ignaziana, tutta rivolta a concentrare le forze dell’anima sul Signore Gesù intensamente conosciuto, amato e imitato.
Negli scritti di quest’uomo di governo si avverte in modo molto chiaro, pur nella riservatezza dietro la quale cela i suoi sentimenti, il primato che egli assegna agli insegnamenti di Cristo. San Bellarmino offre così un modello di preghiera, anima di ogni attività: una preghiera che ascolta la Parola del Signore, che è appagata nel contemplare la grandezza, che non si ripiega su se stessa, ma è lieta di abbandonarsi a Dio. Un segno distintivo della spiritualità del Bellamino è la percezione viva e personale dell’immensa bontà di Dio, per cui il nostro Santo si sentiva veramente figlio amato da Dio ed era fonte di grande gioia raccogliersi, con serenità e semplicità, in preghiera, in contemplazione di Dio. Nel suo libro De ascensione mentis in Deum – Elevazione della mente a Dio – composto sullo schema dell’Itinerarium di san Bonaventura, esclama: “O anima, il tuo esemplare è Dio, bellezza infinita, luce senza ombre, splendore che supera quello della luna e del sole. Alza gli occhi a Dio nel quale si trovano gli archetipi di tutte le cose, e dal quale, come da una fonte di infinita fecondità, deriva questa varietà quasi infinita di cose. Pertanto devi concludere: chi trova Dio trova ogni cosa, che perde Dio perde ogni cosa”.
In questo testo si sente l’eco della celebre contemplatio ad amorem obtinendum –contemplazione per ottenere l’amore – degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Il Bellarmino, che vive nella fastosa e spesso malsana società dell’ultimo Cinquecento e del primo Seicento, da questa contemplazione ricava applicazioni pratiche e vi proietta la situazione della Chiesa del suo tempo con vivace afflato pastorale. Nel libro De arte bene morioendi – l’arte di morire bene – ad esempio, indica una norma sicura del buon vivere, e anche del buon morire, il meditare spesso e seriamente che si dovrà rendere conto a Dio delle proprie azioni e del proprio modo di vivere, e cercare di non accumulare ricchezze in questa terra, ma di vivere semplicemente e con carità in modo da accumulare beni in Cielo. Nel libro De gemitu colunbae – il gemito della colomba, dove la colomba rappresenta la Chiesa – richiama com forza clero e fedeli tutti ad una riforma personale e concreta della propria vita seguendo quello che insegnano la Scrittura e i Santi, tra i quali in particolare san Gregorio Nazianzeno, san Giovanni Crisostomo, san Girolamo, oltre ai grandi Fondatori di Ordini religiosi quali san Benedetto, san Domenico e san Francesco. Il Bellarmino insegna con grande chiarezza e con l’esempio della propria vita che non può esserci vera riforma della Chiesa se prima non c’è la nostra personale riforma e la conversione del nostro cuore” (Benedetto XVI, Udienza Generale, 23 febbraio 2011).
Benedetto XVI si rifà anche a san Bellarmino per vari motivi di utilità attuale, anzitutto per il metodo. Bellarmino tenta di sistematizzare le varie controversie teologiche dell’epoca, evitando ogni taglio polemico e aggressivo nei confronti delle idee della Riforma e utilizzando gli argomenti della ragione e della Tradizione della Chiesa illustra in modo chiaro ed efficace la dottrina cattolica.
Vivendo nella fastosa e spesso malsana società dell’ultimo Cinquecento e del primo Seicento, rifacendosi all’educazione ignaziana tutta rivolta a concentrare le forze dell’anima sul Signore Gesù intensamente conosciuto, amato e imitato, sviluppa una catechesi col medesimo carattere di essenzialità ricavando applicazioni pratiche e vi proietta la situazione della Chiesa del suo tempo con vivace afflato pastorale.
Rifacendosi ai Padri, ai fondatori di ordini religiosi, soprattutto a san Bonaventura per il quale l’unica metafisica reale e non semplicemente formale è quella cristiana per cui chi trova Dio uno e trino trova ogni cosa, chi perde Dio perde ogni cosa il Papa vede un aiuto per superare nei contesti secolarizzati dove regna un clima relativista di confusione etica che grava pesantemente sull’educazione delle giovani generazioni. Molte aspirazioni all’amore e alla libertà vanno malauguratamente a incagliarsi negli scogli dell’individualismo e dell’edonismo. Le nostre società generano una massa di individui solitari che non osano impegnarsi in un progetto di matrimonio per fondare una famiglia o per una fraternità sacramentale nel sacerdozio. Papa Benedetto XVI nel motu proprio Ubicumque et semper sulla nuova evangelizzazione ha descritto come “il deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose”. Il Santo Padre ripete questo messaggio sin dall’inizio del suo pontificato: “Il grande problema dell’Occidente è l’oblio di Dio: è un oblio che si espande. In definitiva, ogni problema particolare può essere condotto a questa questione, ne sono convinto”. E sull’esempio di san Bellarmino la nuova evangelizzazione deve annunciare la novità antropologica del cristianesimo che emana dal mistero trinitario: la ricerca di felicità che assilla il cuore di ogni uomo, le sue esigenze affettive, e soprattutto la sua aspirazione alla libertà e al sistema democratico di governo restano infatti incomprensibili in assenza dell’orizzonte di Dio che è Amore, e che, per amore e attraverso l’amore, ha creato l’uomo e propria immagine e somiglianza. Questa dottrina antropologica della Genesi, approfondita da Cristo in prospettiva trinitaria racchiude le chiavi dell’enigma umano e della speranza della Chiesa del nostro tempo, di cui parla la costituzione conciliare Gaudium et spes. Questa antropologia trinitaria è praticamente dimenticata e oggi le società occidentali secolarizzate sono in declino per mancanza di questo radicamento. Esse riprenderanno vigore e torneranno ad essere feconde nella misura in cui gli individui, interpellati dall’annuncio del Vangelo, vorranno divenire persone in comunione con Dio in Cristo. L’annuncio di un’antropologia trinitaria potrebbe allora ravvivare la speranza, esaltando il dono di sé a Dio e agli altri come cammino di felicità anche temporale.
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