Governare
Governare non è semplicemente un fare, ma soprattutto pensare e pregare
“San Bonaventura, come Ministro Generale dei Francescani, prese una linea di governo nella quale era ben chiaro che il nuovo Ordine non poteva, come comunità, vivere alla stessa “altezza escatologica” di san Francesco, nel quale egli vede anticipato il mondo futuro, ma – guidato, allo stesso tempo, da sano realismo e dal coraggio spirituale – doveva avvicinarsi il più possibile alla realizzazione massima del Sermone della montagna, che per san Francesco fu la regola, pur tenendo conto dei limiti dell’uomo, segnato dal peccato originale.
Vediamo così che per san Bonaventura governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare. Alla base del suo governo troviamo sempre la preghiera e il pensiero; tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera. Il suo contatto intimo con Cristo ha accompagnato sempre il suo lavoro di Ministro Generale e perciò ha composto una serie di scritti teologico – mistici, che esprimono l’animo del suo governo e manifestano l’intenzione di guidare interiormente l’Ordine, di governare, cioè non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo.
Di questi suoi scritti, che sono l’anima del suo governo e che mostrano la strada da percorrere sia al singolo che alla comunità, vorrei menzionarne uno, il suo capolavoro, l’Itinerarium mentis in Deum, che è un “manuale” di contemplazione mistica. Questo libro fu concepito in un luogo di profonda spiritualità: il monte della Verna, dove san Francesco aveva ricevuto le stigmate. Nell’introduzione l’autore illustra le circostanze che diedero origine a questo suo scritto: “Mentre meditavo sulle possibilità dell’anima di ascendere a Dio (ragione), mi si presentò (fede), tra l’altro, quell’evento mirabile occorso in quel luogo al beato Francesco, cioè la visione del Serafino alato in forma di Crocefisso. E su ciò meditando, subito mi avvidi che tale visione mi offriva l’estasi contemplativa del medesimo Padre Francesco e insieme la via che ad esso conduce” (Itinerario della mente in Dio, Prologo, 2, in Opere di San Bonaventura, Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 499).
Le sei ali del Serafino diventano così il simbolo di sei tappe che conducono progressivamente l’uomo alla conoscenza di Dio attraverso l’osservazione del mondo e delle creature e attraverso l’esplorazione dell’anima stessa con le sue facoltà, fino all’unione appagante con la Trinità per mezzo di Cristo, a imitazione di san Francesco d’Assisi. Le ultime parole dell’Itinerarium di san Bonaventura, che rispondono alla domanda su come si possa raggiungere questa comunione mistica con Dio, andrebbero fatte scendere nel profondo del cuore: “Se ora brami sapere come ciò avvenga, (la comunione mistica con Dio) interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; lo sposo, non il maestro; Dio, non l’uomo; la caligine, non la chiarezza; non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio con le forti unioni e gli ardentissimi affetti… Entriamo dunque nella caligine, tacitiamo gli affanni, le passioni e i fantasmi; passiamo con Cristo Crocifisso da questo mondo al Padre, affinché, dopo averlo visto, diciamo con Filippo: ciò mi basta” (ibid., VII, 6).
Cari amici, accogliamo l’invito rivoltoci da san Bonaventura, il Dottore Serafico, e mettiamoci alla scuola del Maestro divino: ascoltiamo la sua parola di vita e di verità, che risuona nell’intimo della nostra anima. Purifichiamo i nostri pensieri e le nostre azioni, affinché Egli possa abitare in noi, e noi possiamo intendere la sua Voce divina, che ci attrae verso la vera felicità” (Benedetto XVI, Udienza, 10 marzo 2010).
Il Concilio Vaticano II, in continuità con san Bonaventura per l’apporto anche di Joseph Ratzinger, ha descritto la rivelazione di Dio in termini di dialogo di amicizia: “Con questa rivelazione infatti Dio invisibile per la ricchezza del suo amore parla agli uomini come amici e si intrattiene con loro, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (DV, n. 2). Avendo deciso di rivelarsi, Dio ha parlato agli uomini e ha adottato il linguaggio umano dell’amicizia con una finalità ben precisa: portare ogni uomo alla comunione di vita con lui mediante la partecipazione alla sua natura divina. “Dio che abita una luce “inaccessibile” (1 Tm 6,16), vuole comunicare la propria vita divina agli uomini da lui liberamente creati, per farne figli adottivi nel suo unico Figlio. Rivelando se stesso, Dio vuole rendere gli uomini capaci di rispondergli, di conoscerlo e di amarlo ben più di quanto sarebbero capaci da sé stessi” (CCC, n. 52).
L’insegnamento conciliare ha posto in evidenza gli elementi specifici del compimento della rivelazione, intesa come manifestazione che Dio fa di se stesso all’uomo. E’ il risultato della libera e assoluta iniziativa di Dio. Il suo oggetto è Dio stesso e i propositi della sua volontà, vale a dire che Dio non fa semplicemente conoscere qualche cosa, bensì se stesso, come Dio vivente in Gesù Cristo, suo Figlio. La sua finalità è la comunione e la partecipazione di vita con il Padre, resa possibile mediante Gesù Cristo per opera dello Spirito santo che ci fa figli nel Figlio. La pienezza della rivelazione avviene in Gesù Cristo, di modo che conoscere Cristo significa conoscere Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Di conseguenza la concezione cattolica della rivelazione sottolinea tanto il suo carattere gratuito e radicalmente nuovo (fede) quanto il suo carattere completo e definitivo dell’itinerario della mente in Dio (ragione) (Eb 1,1-2). Dalla comprensione corretta della rivelazione del Figlio dipende tutto l’edificio cattolico di fede – ragione, ciò che professiamo, celebriamo, viviamo e preghiamo. Per questo è sbagliato intendere la rivelazione come una mera percezione soggettiva, lo sviluppo immanente della religiosità dei popoli e considerare che tutte le religioni sono “rivelate”, in conformità al progresso raggiunto nella loro storia, e in questo senso vere e salvifiche. La Chiesa riconosce, per disposizione di Dio, quanto vi è di vero e di santo nelle religioni non cristiane (OT, n.16). Riconosce inoltre che “quando lo Spirito opera nel cuore di ogni uomo e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica” (Redemptoris missino, n. 29), poiché la sua fonte è Dio. Ne consegue che si possa legittimamente sostenere che, mediante gli elementi di verità e santità contenuti nelle altre religioni, lo Spirito santo operi la salvezza nei non cristiani; questo non significa, tuttavia, che le altre religioni possano essere considerate, “come tali, vie di salvezza, anche perché in esse sono presenti lacune, insufficienze ed errori, che riguardano le verità fondamentali su Dio, l’uomo e il mondo” (Notificazione della Congregazione della Fede a p. Jacques Dupuis, 24 – I – 2001).
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