Fede, ragione e politica
Il campo della politica è il campo della ragione comune
A firma del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, card. Ratzinger, e del Segretario, Tarcisio Bertone, il 24 novembre 2002 è uscita la Nota Dottrinale circa “alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”. Il 9 aprile del 2003 il Cardinale Prefetto è intervenuto al Convegno “L’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica” organizzato dalla Pontificia Università della Santa Croce. Da esso traiamo la posizione di fondo che riguarda immediatamente i cattolici – perché solo questi hanno una relazione di fede con la Santa Sede – ma che vuol far pensare naturalmente tutti.
Per la convinzione della chiesa cattolica di tutti i tempi la politica appartiene alla sfera della ragione, la ragione comune a tutti, la ragione naturale. La politica quindi è un lavoro che implica l’uso della ragione e va governata dalle virtù naturali della prudenza, della temperanza, della giustizia, della fortezza
Il campo della politica è il campo della ragione comune, che deve svolgersi nella reciproca comprensione e che deve comportare anche l’illuminazione della ragione e quindi implica l’esclusione di due posizioni.
- Esclude innanzitutto la teologizzazione della politica, che diventerebbe ideologizzazione della fede. La politica infatti non si desume dalla fede, ma dalla ragione, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene proprio alla tradizione centrale del cristianesimo: la troviamo nella parola di Cristo “Date all’imperatore quanto è dell’imperatore, a Dio quanto è di Dio”. In questo senso lo Stato è uno Stato laico, nel senso positivo.
- La giusta profanità o anche la laicità positiva che esclude l’idea di una teocrazia, di una politica determinata dal dettato della fede, esclude d’altra parte, anche un positivismo ed empirismo che è una mutilazione della ragione. Secondo questa posizione la ragione sarebbe capace di percepire solo le cose materiali, empiriche, verificabili o falsificabili con metodi empirici, con maggioranze democratiche anche per valori veritativi. Quindi la ragione sarebbe cieca per quanto riguarda i valori morali e non potrebbe giudicarli, perché rientrerebbero nella sfera della soggettività e non in quella dell’oggettività di una ragione limitata al verificabile,all’empirico, a maggioranze e quindi positivista: che cosa è bene e che cosa è male sarebbero solo opinioni soggettive. Una tale mutilazione della ragione che si limita al constatabile, all’empirico, al verificabile e al falsificabile secondo metodi democraticamente quantitativi, distrugge la politica e la riduce a un’opzione puramente tecnica che dovrebbe seguire semplicemente le correnti più forti del momento, sottomettendosi al transitorio ed anche ad un dettato irrazionale. La ragione, alla fine, sipiega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo senza possibilità di un’etica.
Ed è qui che subentra un certo legame tra fede e politica cioè tra fede e ragione: la fede cioè può illuminare la ragione, può sanare, guarire una ragione ammalata, una coscienza comune oscurata. Non nel senso che questo influsso della fede trasferisce il campo della politica dalla ragione alla fede, ma nel senso che restituisce la ragione a se stessa, aiuta la ragione ad essere se stessa, senza alienarla.
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