Veglia pasquale

Come comprendere, pensare, quindi vedere e perciò credere al fatto della risurrezione avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono testimoni e non certo creatori?

“San Marco ci racconta nel suo Vangelo che i discepoli, scendendo dal monte della Trasfigurazione, discutevano tra di loro su che cosa volesse dire “risorgere dai morti” (Mc 9,10). Prima il Signore aveva annunciato loro la passione. Ma ora si domandavano che cosa potesse essere inteso con il termine “risurrezione”. Non succede forse la stessa cosa anche a noi? Il Natale, la nascita del Bambino divino ci è in qualche modo immediatamente comprensibile. Possiamo amare il Bambino, possiamo immaginare la notte di Betlemme, la gioia di Maria, la gioia di san Giuseppe e dei pastori e il giubilo degli angeli (come tutte le parole e i fatti divino –umani cioè i misteri della fase terrena della vita di Gesù che sacramentalmente la Chiesa continuamente riattualizza nella sua liturgia). Ma risurrezione – che cosa è? Non entra nell’ambito delle nostre esperienze, e così il messaggio spesso rimane, in qualche misura incompreso, una cosa del passato. La Chiesa cerca di condurci alla sua comprensione, traducendo questo avvenimento misterioso nel linguaggio dei simboli nei quali possiamo in qualche modo contemplare questo avvenimento sconvolgente. Nella Veglia Pasquale ci indica il significato di questo giorno soprattutto mediante tre simboli: la luce, l’acqua e il canto nuovo – l’alleluia” (Benedetto XVI, Omelia della veglia nella Notte Santa, 11 aprile 2009).

Sepolcro vuoto e apparizioni per l’esplosione di Luce e di Amore che illumina la storia ed aiuta a trovare, chi lo incontra tra i Suoi, la via verso il futuro
All’avvenimento della resurrezione di Gesù Cristo appartiene anche l’automanifestazione del risorto all’interno della storia e nei riguardi della storia stessa dell’uomo e dell’intero universo. La risurrezione di Gesù Cristo ha luogo anche come “apparizione” non davanti a tutto il popolo ma a testimoni scelti da Dio: sia quelli fondanti la Tradizione apostolica cioè Pietro e gli Apostoli con lui, Paolo per quella sulla via di Damasco e sia quelle apparizioni di aiuto come alla donne, ad altri discepoli e per Paolo quelle successive alla via di Damasco e quindi di tutta la Tradizione quando consta della soprannaturalità a giudizio dei successori degli apostoli.
Una tale pretesa di accertabilità storica come fatto avvenuto nella storia e come punto di arrivo nella storia dell’uomo e dell’universo, sollevata dalla resurrezione di Gesù Cristo, avviene già con il sepolcro vuoto. Questo infatti rappresenta una silenziosa ma al tempo stesso eloquente irruzione dell’avvenimento nella storia nella sua fase terrena. I racconti dei vangeli, molto vari e disarmonici di fronte ad un avvenimento comunque incredibile e inaspettato, lasciano emergere comunque due considerazioni:
- prima di tutto la convinzione che il sepolcro vuoto è un fatto, una convinzione che al massimo può essere messa in dubbio in base a dicerie ed argomentazioni di pretesa razionalistica di chi riduce ideologiamente la razionalità a verifica empirica;
- inoltre però – e questa è la seconda convinzione che si può trarre dai racconti – questo sepolcro vuoto non viene citato come dimostrazione, bensì come rinvio al fatto della risurrezione, e questo proprio per chi sente raccontare il fatto dalla bocca dell’angelo, cioè dal messaggero di Dio o come Giovanni, attento osservatore della posizione del lenzuolo e delle bende, arriva, sotto l’azione dello Spirito del risorto, a capire, a pensare e quindi a vedere, a credere.
Il sepolcro vuoto, come giustamente è stato notato pone sulla strada su cui il Risorto dà testimonianza di se stesso. Ma esso serve come segnale stradale. Con il sepolcro vuoto ha inizio l’affermazione incerta e l’assenso silenzioso dell’avvenimento.
Ciò che invece nel Nuovo testamento ha un interesse fondamentale è un altro fatto storicamente accertabile: è l’apparizione del risorto a dei testimoni, soprattutto a quelli prescelti da Dio: Pietro con gli Apostoli che lo avevano seguito nella fase terrena del Suo ministero e ne coglievano continuità come identità e discontinuità come modalità. Il concetto decisivo “egli apparve”, sta ad indicare: si è lasciato vedere, si è offerto allo sguardo, si è fatto visibile e sperimentabile. Per questo si è potuto anche dire:”Dio volle che apparisse non a tutto il popolo ma a testimoni prescelti” (At 10,40), o anche: “Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti” (Gv 21,14; 21,1). Da parte dei testimoni allora si può dire: “Abbiamo visto” e di questo “vedere” si parla molte volte e in molti modi (ad es. in Mc 16,7; Mt 28,7; Gv 20,18.2 e altrove). Paolo formula anche in altro modo l’apparire del risorto ed esaltato nell’avvenimento dell’incontro con la Persona di Gesù Cristo attraverso la testimonianza di credenti, dando alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Egli parla di “rivelazione” o anche di “svelamento” di Gesù Cristo. Ma rivelazione implica per lui la manifestazione di un mistero divino attraverso l’infusione di ciò che di più intimo, di più proprio c’è in Lui, il suo stesso Spirito, lo Spirito del Risorto glorificato, cioè di un fatto nascosto e inaccessibile all’esperienza umana, come caparra dello svelamento futuro e definitivo. Come pegno di ragionevolezza e accertabilità storica l’apostolo ha dunque compreso ciò che è stato sperimentato da testimoni prima di lui e quindi da lui stesso. Così l’apostolo distingue pure questo mostrarsi in visione del risorto alle colonne cioè a Pietro, Giacomo e Giovanni, questo vedere, da ogni altra sua rivelazione o visione che egli non pone a fondamento del proprio annuncio. E’ anche del tutto cosciente che l’apparizione del risorto alla propria persona sulla via di Damasco, menzionata nella prima Lettera ai Corinti (1 Cor 15,8), è l’ultima delle fondamentali apparizioni e rivelazioni che fondano la fede nel Risorto nel Suo corpo che è la Chiesa. Anche gli Atti degli apostoli accettano tale differenziazione tra quella avvenuta sulla via di Damasco e le altre.
La singolarità dell’apparizione del risorto si rispecchia allora nel modo tutto particolare in cui essa avviene. Il risorto appare e si sottrae, e coloro che lo vedono non possono trattenerlo, neppure con il loro sguardo. Luca ha presentato questo fatto in modo descrittivo: “Allora si aprirono loro – cioè ai discepoli di Emmaus – gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista” (Lc 24,31). Questo fatto è oggetto di maggior riflessione teologica in Giovanni il quale intende tutta quanta l’opera divino - umana di Gesù nella sua fase terrena, compresa la passione, la crocifissione, la sepoltura, a partire dalla esaltazione considerata come venuta che è sempre nello stesso tempo commiato. Maria Maddalena alla fine vede il risorto, che, sulla via che porta al Padre, non deve essere trattenuto nella fase terrena e come è apparso così scompare. Il risorto sempre presente è sempre contemporaneamente assente: non è quello che fino allora hanno conosciuto, eppure lo è come lo testimonia Tommaso.
I concetti di “apparizione” e di “visione” iniziano ad un altro fattore. Egli è “apparso”, significa anche una automanifestazione del risorto nella sua parola e nei suoi segni, nel volto dei suoi. E sapere, pensare, vedere e quindi credere indica pure l’esperienza corrispondente. Resurrezione in quanto irruzione nella storia del divino, è anche incontro con la Persona di Gesù Cristo all’inizio di ogni essere cristiano e di ogni testimonianza. Incontro, quale appare dalla pagina paolina, significa ingresso del Crocifisso risorto in noi, tale per cui siamo trasformati realmente in Lui, viviamo in Lui e di Lui. Perché un incontro del genere possa accadere, il Crocifisso risorto infonde nell’uomo ciò che di più intimo, di più proprio c’è in Lui, il suo stesso Spirito, che fa accadere l’incontro dell’io con il Verbo incarnato, crocifisso e risorto presente nel Suo Corpo che è la Chiesa. Questo incontro, che accade attraverso i testimoni, da persona a persona, proviene dal Risorto. L’incontro che si esprime in Parola e attraverso mediazioni “materiali” come i segni sacramentali, l’Eucaristia in particolare, attraverso volti umani molto “carnali” che possono colpirci per la bellezza, emozionarci per la sensibilità, suscitare ammirazione per le capacità o misericordia per le situazioni di peccato, di povertà, di miseria è tutto puro dono: per grazia sono quello che sono anche se la grazia in me non è stata resa vana, dice Paolo. E l’esperienza di questo Risorto è puro accogliere.
Tuttavia l’avvenimento della risurrezione e delle apparizioni del risorto è ancor più di largo respiro e affonda le sue radici nella storia. La rivelazione del risorto entra nella parola dei testimoni non certo creatori. Anche il risorto si consegna, ma ora non più alla morte, bensì alla parola di Dio che riattualizza tutti i fatti e i detti della sua fase terrena, come Colui che è vivo, che vive nascosto in Dio. Così Paolo parla in un brano della lettera ai Galati, ma non solo in quel passo, del fatto che Dio ha deciso “di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,15).
Anche nei Vangeli, senza dubbio in un modo tutto diverso, si può riconoscere il fatto che il risorto, nella sua apparizione, si offre immediatamente nella parola di coloro che lo hanno visto, come ad esempio nell’entusiastico grido dei discepoli raccolti insieme: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24,34). Va notato che questo non è il grido di gente qualsiasi ma di “testimoni scelti da Dio” (At 10,41), i quali, sostenuti dalla precedente esperienza di rapporti con il Gesù della fase terrena (per Paolo, che non ha questa precedente esperienza di rapporti con Gesù nella fase terrena c’è il racconto delle colonne, Pietro, Giacomo e Giovanni), possono ampliare la testimonianza del risorto fino a comprendere la testimonianza del Gesù nella fase terrena, che in modo nascosto era già il Messia e il Kyrios (At 1,21s.; 13,30s.). La parola, nella quale si manifesta il Risorto, è la parola di una tradizione esclusiva.
Ma è anche la parola dell’avvenimento che travolge e attira a sé i testimoni. E’ la parola di testimoni che hanno reagito a tale incontro con il Risorto prima di tutto con sgomento, paura, misconoscimento, dubbio, incredulità, ma che sostenuti dalla sua autoproclamazione sono stati travolti e coinvolti nell’evento.
Ma essa è anche parola di mandato, di missione, di incarico. Fin dall’inizio non è una parola liberamente scelta, in modo autonomo e indipendente, per una sorta di entusiasmo individuale, ma una parola di missione.. “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni”. Per questo lo Spirito, la forza rivelatrice del Risorto, è nuovamente operante. “Siamo testimoni noi e lo Spirito santo”. Il Risorto si lascia diffondere nello Spirito e una volta esaltato lo infonde a sua volta. Come Giovanni non si stanca di sottolineare, il Risorto ritorna continuamente nello Spirito. “Se Cristo non è risuscitato allora è vana la nostra predicazione” dice Paolo (1 Cor 15,14). E’ vana poiché sarebbe soltanto un ricordo storico e in essa non parlerebbe e agirebbe sacramentalmente per lo Spirito Gesù vivente cioè il Risorto, il Signore. Se Gesù non è Risorto dai morti, continuamente presente nell’attualizzazione liturgica della Chiesa come Parola di Dio, come Parola del Signore il riferimento biblico non è più Parola di Dio che opera ciò che dice e nessuno deve piegare le sue ginocchia davanti a Lui. Ma allora anche la struttura sacramentale del Battesimo, dell’Ordine, del Banchetto eucaristico sarebbero vuote cerimonie, ricordi senza senso, e i carismi diventerebbero un vano e fatuo entusiasmo. Allora non vi sarebbe più alcuna differenza tra un apostolo e un genio, e la Chiesa edificata dal Risorto _ “su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18) – sarebbe un tiaso come quello degli antichi o qualcosa di simile alla comunità di Qumram, e le porte degli inferi già da molto tempo avrebbero prevalso contro di essa. Allora non ci sarebbero più ministeri, perché non vi sarebbe più potere divino, mandato e missione da parte del Risorto, ma solo una gerarchia ben ordinata di funzioni. Insomma, come grida san Paolo: “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto (come buon esempio) in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,19) ( per queste argomentazioni mi sono rifatto a Heinrich Schlier, il Mistero pasquale pp. 46-50). Ma Cristo è risorto, la risurrezione è un fatto avvenuto nella storia, di cui Pietro e gli Apostoli, Paolo sono stati testimoni e non certo creatori. Nello stesso tempo essa non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena come in Lazzaro; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio fino alla fine dei tempi. E la Chiesa cerca di condurci alla sua comprensione, traducendo questo avvenimento misterioso nel linguaggio dei simboli nei quali possiamo in qualche modo contemplare questo evento sconvolgente. Nella veglia pasquale ci indica il significato di questo giorno mediante tre simboli: la luce, l’acqua e il canto nuovo – l’alleluia.

C’è innanzitutto la luce e perché Cristo è Luce?
La creazione di Dio, che nella liturgia riattualizziamo come Parola di Dio attraverso il racconto biblico, comincia con la parola: “Sia la luce!” (Gn 1,3). Dove c’è la luce, nasce la vita, il caos si trasforma in cosmo. Nel messaggio biblico, la luce è l’immagine più immediata di Dio che possiede un volto umano, Gesù Cristo, la Persona, la Ragione per cui il Padre attraverso lo Spirito tutto ha creato, redento e ha pensato e voluto ciascuno di noi predestinandoci a figli adottivi: Egli è interamente Luminosità, Vita, Verità, Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro. Nella Veglia Pasquale la Chiesa legge il racconto della creazione come profezia. Nella risurrezione si verifica in modo più sublime ciò che il testo della creazione descrive come l’inizio di tutte le cose: il Padre ci ha scelti, pensati e voluti in Cristo, Ragione di tutta la creazione e dice nuovamente: “Sia la luce!”. La risurrezione di Gesù è un’eruzione di luce e di amore. La morte è superata, il sepolcro spalancato. Il Risorto stesso è Luce, la Luce del mondo. Con la risurrezione il giorno di Dio entra nelle notti della storia come si presenta la fase terrena della nostra vita dal concepimento alla morte, a cui con il battesimo siamo morti al morire della sola fase terrena per risorgere, vivere una nuova vita perché a partire dal fatto della risurrezione, la luce di Dio si diffonde nel mondo e nella storia. Si fa giorno. Solo questa Luce – Gesù Cristo – è la luce vera, più del fenomeno fisico della luce. Egli è la Luce pura: Dio stesso, che fa nascere una nuova creazione in mezzo a quella antica, trasforma il caos in cosmo..
Nell’Antico Testamento, la Torah era considerata come la luce proveniente da Dio per il mondo e per gli uomini. Essa separa nella creazione la luce dalle tenebre, cioè il bene dal male. Indica ad ogni uomo la via giusta per vivere veramente. Gli indica il bene, gli mostra la verità e lo conduce verso l’amore, che è il suo contenuto più profondo. Essa è “lampada” per i passi e “luce” sul cammino (Salmo 119, 105). I cristiani, poi, sapevano: In Cristo è presente, incarnata in una Persona divino – umana, la Torach, la Parola di Dio è presente in Lui come Persona e lasciarsi assimilare a Lui è realizzare la Torach con le beatitudini. La Parola di Dio cioè il Verbo incarnato è la vera Luce di cui ha bisogno ogni uomo per cogliere chi è, da dove viene e a che cosa è destinato, e la via, la fede vissuta per giungervi. Questa Parola è presente, incarnata in Lui, nel Figlio. Il Salmo 119 aveva paragonato la Torah al sole che, sorgendo, manifesta la gloria di Dio visibilmente in tutto il mondo. I cristiani capiscono in profondità: sì, nella risurrezione il Figlio di Dio è sorto come Luce sul mondo. Cristo è la grande Luce dalla quale proviene ogni vita. Egli ci fa conoscere la gloria di Dio da un confine all’altro della terra. Egli ci indica la strada. Egli è il giorno di Dio che ora, crescendo, si diffonde per tutta la terra. Adesso, vivendo con Lui e per Lui, possiamo vivere nella luce.
Nella Veglia Pasquale, la Chiesa rappresenta il mistero di luce del Cristo nel segno del cero pasquale, la cui fiamma è insieme luce e calore. Il simbolismo della luce è connesso con quello del fuoco: luminosità e calore, luminosità ed energia di trasformazione contenuta nel fuoco – verità e amore vanno insieme. Il cero pasquale arde e con ciò si consuma: croce e risurrezione sono inseparabili. Dalla croce, dall’autodonazione del Figlio nasce la luce, viene la vera luminosità nel mondo. Al cero pasquale noi tutti accendiamo le nostre candele, soprattutto quelle dei neobattezzati, ai quali in questo Sacramento la luce di Cristo viene calata nel profondo del cuore. La Chiesa antica ha qualificato il Battesimo come fotismos, come Sacramento dell’illuminazione, come una comunicazione di luce e l’ha collegato inscindibilmente con la risurrezione di Cristo. Nel Battesimo Dio dice al battezzando: “Sia la luce!”. Il battezzando viene introdotto entro la luce di Cristo. Cristo divide ora la luce dalle tenebre. In Lui riconosciamo che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è la luminosità e che cosa il buio. Con Lui sorge in noi la luce della verità e cominciamo a capire. Quando una volta Cristo vide la gente che era convenuta ad ascoltarlo e aspettava da Lui un orientamento, ne sentì compassione, perché erano pecore senza pastore (Mc 6,34). In mezzo alle correnti contrastanti del loro tempo non sapevano dove rivolgersi. Quanta compassione Egli deve sentire anche del nostro tempo – a causa di tutti i grandi discorsi dietro i quali si nasconde in realtà un grande disorientamento. Dove dobbiamo andare? Quali sono i valori, secondo cui possiamo regolarci? I valori secondo cui possiamo educare i giovani, senza dare loro delle norme che forse non resisteranno o esigere cose che forse non devono essere loro imposte? Egli è la Luce. La candela battesimale è il simbolo dell’illuminazione che nel Battesimo ci viene donata. Così in quest’opera anche san Paolo ci parla in modo immediato. Nella Lettera ai Filippesi dice che, in mezzo a una generazione tortuosa e stravolta, i cristiani dovrebbero risplendere come astri nel mondo (Fil 2,15). “Preghiamo il Signore – ha concluso Benedetto XVI la lettura di questo primo simbolo della risurrezione – che il piccolo lume della candela, che Egli ha acceso in noi, la luce delicata della sua parola e del suo amore in mezzo alle confusioni di questo tempo non si spenga in noi, ma diventi sempre più grande e più luminosa. Affinché siamo con Lui persone del giorno, astri per il nostro tempo”.

Il secondo simbolo della Veglia Pasquale – la notte del Battesimo – è l’acqua
Essa appare nella Sacra Scrittura, e quindi nella struttura interiore del Sacramento del Battesimo, in due significati opposti. C’è da una parte il mare che appare come il potere antagonista della vita sulla terra, come la sua continua minaccia, alla quale Dio, però, ha posto un limite. Per questo l’Apocalisse dice del mondo nuovo di Dio che lì il mare non ci sarà più (21,1). E’ l’elemento della morte. E così diventa la rappresentazione simbolica della morte in croce di Gesù: Cristo disceso nel mare, nelle acque della morte come Israele nel Mar Rosso. Risorto dalla morte, Egli ci dona la vita veramente vita. Ciò significa che il Battesimo non è solo un lavacro, ma una nuova nascita: con Cristo quasi discendiamo nel mare della morte, per risalire come creature nuove.
L’altro modo in cui incontriamo l’acqua è come sorgente fresca, che dona la vita, o anche il grande fiume da cui proviene la vita. Secondo l’ordinamento primitivo della Chiesa, il battesimo doveva essere amministrato con acqua sorgiva fresca. Senza acqua non c’è vita. Colpisce quale importanza abbiano nella Sacra Scrittura i pozzi. Essi sono luoghi dove scaturisce la vita. Presso il pozzo di Giacobbe, Cristo annuncia alla Samaritana il pozzo nuovo, l’acqua della vita vera. Egli si manifesta a lei come il nuovo Giacobbe, quello definitivo, che apre all’umanità il pozzo che essa attende: quell’acqua che dona la vita che non si esaurisce mai (Gv 4, 5 – 15). San Giovanni ci racconta che un soldato con una lancia colpì il fianco di Gesù e che dal fianco aperto – dal suo cuore trafitto – uscì sangue e acqua (Gv 19,34). La Chiesa antica ne ha visto un simbolo per il battesimo e l’Eucaristia che derivano dal cuore trafitto di Gesù. Nella morte Gesù è divenuto Egli stesso la sorgente. Il profeta Ezechiele in una visione aveva visto il tempio nuovo dal quale scaturisce una sorgente che diventa un grande fiume che dona la vita (Ez 47, 1 – 12) – in una Terra che sempre soffriva la siccità e la mancanza d’acqua, questa era una grande visione di speranza. La cristianità degli inizi capì: in Cristo questa visione si è realizzata. Egli è il vero, il vivente Tempio di Dio. E Lui è la sorgente di acqua viva. Da Lui sgorga il grande fiume che nel Battesimo fruttifica e rinnova il mondo: il grande fiume di acqua viva, il suo Vangelo che rende feconda la terra. In un discorso durante la Festa delle capanne, Gesù ha però profetizzato una cosa ancora più grande: “Chi crede in me…dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva” (Gv 7,38). Nel Battesimo il Signore fa di noi non solo persone di luce, ma anche sorgenti dalle quali scaturisce acqua viva. Noi tutti conosciamo persone simili che ci lasciano in qualche modo rinfrescati e rinnovati; persone che sono come una fonte di fresca acqua sorgiva. Non dobbiamo necessariamente pensare ai grandi come Agostino, Francesco d’Assisi, Tersa d’Avila, Madre Teresa di Calcutta e così via, persone attraverso le quali veramente fiumi di acqua viva sono entrati nella storia. Grazie a Dio, le troviamo continuamente anche nel nostro quotidiano: persone che sono una sorgente. Certo conosciamo anche il contrario: persone dalle quali promana un atmosfera come da uno stagno con acqua stantia o addirittura avvelenata.

Il terzo grande simbolo è di natura tutta particolare; esso coinvolge l’uomo stesso. E’ il cantare il canto nuovo – l’alleluia
Quando un uomo sperimenta una grande gioia, non può tenerla per sé. Deve esprimerla, trasmetterla. Ma che cosa succede quando l’uomo viene toccato dalla luce della risurrezione e in questo modo viene a contatto con la Vita stessa, con la Verità e con l’Amore? Di ciò egli non può semplicemente parlare soltanto. Il parlare non basta più. Egli deve cantare. La prima menzione del cantare nella Bibbia, la troviamo dopo la traversata del mar Rosso. Israele si è sollevato dalla schiavitù. E’ salito dalle profondità minacciose del mare. E’ come rinato. Vive ed è libero. La Bibbia descrive la reazione del popolo a questo grande evento del salvamento con la frase: “Il popolo credette nel Signore e in Mosé suo servo” (Ex 14,31). Ne segue poi la seconda reazione che, con una specie di necessità interiore, emerge dalla prima: “Allora Mosé e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore…” Nella Veglia Pasquale, anno per anno, noi cristiani intoniamo dopo la terza lettura questo canto, lo cantiamo come il nostro canto, perché anche noi mediante la potenza di Dio siamo stati tirati fuori dall’acqua e liberati alla vita vera. Per la storia del canto di Mosé dopo la liberazione di Israele dall’Egitto e dopo la risalita dal Mar Rosso, c’è un parallelismo sorprendente nell’Apocalisse di san Giovanni. Prima dell’inizio degli ultimi sette flagelli imposti alla terra, appare al veggente qualcosa “come un mare di cristallo misto a fuoco; coloro che avevano vinto la bestia, la sua immagine e il numero del suo nome, stavano in piedi sul mare di cristallo. Hanno cetre divine e cantano il canto di Mosé, il servo di Dio, e il canto dell’Agnello…” (Ap 15,2s). Con questa immagine è descritta la situazione dei discepoli di Gesù Cristo in tutti i tempi, la situazione della Chiesa nella storia di questo mondo. Considerata umanamente, essa è in se stessa contraddittoria. Da una parte, la comunità si trova nell’Esodo, in mezzo al Mar Rosso. In un mare che, paradossalmente, è insieme ghiaccio e fuoco. E non deve forse la chiesa, per così dire, camminare sempre sul mare, attraverso il fuoco e il freddo? Umanamente parlando essa dovrebbe affondare. Ma, mentre cammina ancora in mezzo a questo Mar Rosso, essa canta – intona il canto dei giusti: il canto di Mosé e dell’Agnello, in cui si accordano l’Antica e la Nuova Alleanza. Mentre, tutto sommato, dovrebbe affondare, la Chiesa canta il canto di ringraziamento dei salvati. Essa sta sulle acque di morte della storia e tuttavia è già risorta. Cantando essa si aggrappa alla mano del Signore, che la tiene al di sopra delle acque. Ed essa sa che con ciò è sollevata fuori dalla forza di gravità della morte e del male – una forza dalla quale altrimenti non ci sarebbe via di scampo – sollevata e attirata dentro la nuova forza di gravità di Dio, della verità e dell’amore. Al momento si trova tra i due campi gravitazionali. “Ma – conclude Benedetto XVI – da quando Cristo è risorto, la gravitazione dell’amore e più forte di quella dell’odio; la forza di gravità della vita è più forte di quella della morte. Non è forse questa veramente la situazione della Chiesa di tutti i tempi? Sempre c’è l’impressione che essa debba affondare, e sempre è già salvata. San Paolo ha illustrato questa situazione con le parole: “Siamo…come moribondi, e invece viviamo” (2 Cor 6,9). La mano salvifica del Signore ci sorregge, e così possiamo cantare già ora il canto dei salvati, il canto nuovo dei risorti: alleluia. Amen”.

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